La motonave Ravello in bacino a La Spezia nel luglio '46 alla fine della guerraEra così naturale che alla fine delle ostilità in Europa (8 maggio 1945) la Marina si presentasse, in un paese devastato da 5 anni di guerra, come l'unica organizzazione garante della continuità di spirito e d'intenti. Anche la Marina versava però in condizioni drammatiche: le infrastrutture e le installazioni erano in gran parte inutilizzabili, e i porti e le basi inagibili perché minati o ingombri di relitti affondati. Le unità navali disponibili erano comunque in numero sufficiente per dar vita ad uno strumento idoneo ad affrontare le esigenze operative di un dopoguerra nel quale già traspariva la futura contrapposizione fra un blocco Occidentale e uno Orientale.

Alle due navi da battaglia (Italia e Vittorio Veneto) internate ai Laghi Amari sin dal periodo armistiziale si aggiungevano le tre corazzate rimaste in Italia (Andrea Doria, Caio Duilio, Giulio Cesare) che, pur risalendo alla prima guerra mondiale, erano state ammodernate nella seconda metà del decennio precedente. Vi erano poi 9 incrociatori, fra i quali le unità più moderne erano i tre esemplari della classe "Capitani Romani" (Attilio Regolo, Scipione Sommergibili italiani internati a Malta nel settembre '43Africano e Pompeo Magno), mentre una parte dei rimanenti risaliva a circa 10 anni prima.
I cacciatorpediniere superstiti erano 11, fra i quali il gruppo più numeroso e moderno era formato dalle sette unità classe "Soldati", entrate in servizio fra il 1938 e il 1942.

I sommergibili costituivano il gruppo più omogeneo di naviglio militare, con 36 battelli di varie categorie e classi costruiti in maggioranza durante il conflitto; le unità di scorta e le corvette ammontavano rispettivamente a 22 e 19 esemplari.

Il quadro del naviglio combattente era completato da 44 unità veloci costiere (suddivise fra motosiluranti e vedette antisommergibili), 50 dragamine (fra cui numerosi esemplari ceduti dalla Royal Navy durante la cobelligeranza) e 16 motozattere da sbarco. A queste forze si aggiungevano le unità ausiliare d'altura e costiere, oltre ad un centinaio di piattaforme di vario tipo e dimensioni fra cui le due navi scuola Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo e la nave appoggio/trasporto aerei Giuseppe Miraglia.

La corazzata Italia in demolizione presso l'arsenale di La SpeziaUn complesso di forze rilevante, il cui stato di efficienza risentiva tuttavia profondamente dell'usura bellica e dell'anzianità di servizio, mentre sulle caratteristiche tecniche del naviglio subacqueo e delle corazzate pesavano gran parte degli insuccessi registrati durante il conflitto. A tutto ciò bisognava aggiungere l'impraticabilità delle principali basi (a meno di Taranto, dove nel periodo della cobelligeranza erano già state riparate oltre 2000 unità navali di vario tipo) e la cronica scarsità di combustibili e dei materiali indispensabili per mantenere in efficienza una sia pur minima aliquota di naviglio.
In un periodo di palesi difficoltà finanziarie, i magri bilanci destinati alla Marina nel biennio 1945-47 (in totale poco più di 80 miliardi, a fronte dei 272 del bilancio globale delle Forze Armate) consentirono un'attività principalmente rivolta allo sminamento e allo sgombero di porti e infrastrutture, permettendo così all'economia nazionale di intraprendere quella fase di rinascita che non poteva prescindere dall'importazione via mare delle più indispensabili materie prime.

L'incrociatore Caio Duilio in costruzione a Castellammare di StabiaIl primo Capo di Stato Maggiore del dopoguerra fu l'ammiraglio Raffaele de Courten, che fu contemporaneamente Ministro della Marina sino al luglio del '46 (successivamente, nell'ambito dell'unificazione dei precedenti Ministeri separati di Forza Armata in un unico dicastero della Difesa, questo incarico venne affidato ad un esponente politico, Giuseppe Micheli).
De Courten si prodigò nell'opera di riorganizzazione generale e di ripresa addestrativa, in una fase della storia italiana caratterizzata soprattutto dal cambiamento istituzionale della Nazione e dalla progressiva smobilitazione dell'apparato militare. In questo contesto, e tenendo soprattutto conto delle disponibilità di bilancio, lo Stato Maggiore della nuova Marina Militare (MM) elaborò una serie di studi sulla futura struttura dello strumento navale, ipotizzando un complesso di forze strutturato sulle due navi da battaglia classe Italia, su 7 moderni incrociatori e 9 cacciatorpediniere, sulla totalità del naviglio minore allora in linea e su alcuni sommergibili; si ipotizzò inoltre la trasformazione di un certo numero di navi cisterna in portaerei leggere, dimostrando così la volontà di porre rimedio a quella che era stata forse la più grave delle deficienze tecnico-operative palesate durante il conflitto, ovvero la capacità di protezione AA ed AS dei convogli.

In merito all'organizzazione generale le forze navali furono suddivise fra comandi superiori specialistici che raggruppavano unità di categorie omogenee, mentre la creazione di idonei Ispettorati e la ripresa dell'attività addestrativa degli Istituti (Accademia Navale e Scuole Sottufficiali) permisero alla Marina di muoversi verso l'obiettivo di una graduale riduzione degli effettivi (all'epoca oltre 64000 uomini) verso un'aliquota più contenuta, idonea a soddisfare in maniera più razionale le future esigenze di funzionamento.
Le speranze della Marina erano tuttavia destinate ad infrangersi contro la realtà della Conferenza di pace, i cui lavori preparatori, iniziati a Parigi nel luglio del 1946, si conclusero con la firma, il 10 febbraio 1947, di quello che venne unanimemente riconosciuto come un diktat nei confronti dell'Italia; il Trattato di Pace, al di là delle cessioni territoriali e materiali, era infatti da considerarsi eccessivamente gravoso per la Marina soprattutto perché contrastava con le intenzioni precedentemente manifestate dagli Alleati.