Alla fine della seconda guerra mondiale l'Italia cessava di esistere come potenza navale; trentanove mesi di conflitto duro e logorante avevano provocato numerose perdite di uomini e materiali, e alle sofferenze patite durante le ostilità contro gli Alleati si aggiungevano i problemi scaturiti dall'armistizio dell'8 settembre 1943 e dalla divisione delle forze armate fra il Sud monarchico e il Nord repubblicano.

Per illustrare sinteticamente l'attività svolta dalla Regia Marina nel periodo giugno 1940 - settembre 1943 basterà ricordare i tre milioni di ore di moto e i 37 milioni di miglia percorse, la perdita di 270.000 tonnellate di naviglio militare e le 412.000 tonnellate di naviglio avversario affondato.

Fu proprio a questo bagaglio d'impegno e di sacrificio che la Marina italiana poté rappresentare, in un momento di svolta per le sorti del conflitto e del Paese, la pietra angolare sulla quale, così come profetizzare dall'ammiraglio Bergamini, la Nazione avrebbe potuto pazientemente riedificare le proprie fortune.

L'accordo di cooperazione siglato a Taranto il 23 settembre 1943 fra l'ammiraglio Raffaele de Courten e il comandante in capo delle flotte alleate nel Mediterraneo, ammiraglio Cunningham, permise alla Marina di avviare, dopo le vicende armistiziali, il lungo e difficile processo di ricostruzione.

Lo Stato Maggiore e gli Enti centrali si ricostituirono a Taranto, e durante la cobelligeranza il contributo delle forze navali italiane permise agli Alleati di distogliere progressivamente le proprie unità dalla scorta al traffico nel Mediterraneo, garantendo contemporaneamente lo svolgimento di attività di diverso tipo quali il rilascio/recupero di informatori, l'addestramento delle unità antisom e la ricognizione delle coste controllate dal nemico.