Nel tentativo di riportare ordine e chiarezza nel campo della politica nazionale di Difesa e delle scelte ad essa collegate, nel novembre del 1984 il Ministro Giovanni Spadolini approvò l'edizione del "Libro Bianco 1985", in cui venivano enunciati criteri di impostazione e gestione dello strumento operativo in un'ottica interforze, strettamente correlati ad una programmazione finanziaria a lungo termine. Proiettandosi nel futuro per un arco di 15 anni, il documento fissava essenzialmente tre postulati, riassumibili nella fedeltà dell'Italia all'Alleanza Atlantica e ai suoi indirizzi politico-strategici, nella percezione di una crescente minaccia da Sud e delle sue necessarie implicazioni e nell'adeguamento dello strumento militare nazionale alle moderne innovazioni tecniche e tecnologiche. Allo scopo di razionalizzare tutte le componenti delle Forze Armate e di utilizzare in maniera ottimale le risorse, il "Libro Bianco" individuava cinque "missioni operative interforze" e una di supporto, per l'adempimento delle quali venivano ipotizzati programmi comuni e una disponibilità finanziaria annua per le spese di investimento pari a circa 4.000 miliardi.
La prima missione interforze era incentrata sulla difesa a nord-est, dove la Marina era chiamata a concorrere al supporto di operazioni di natura prevalentemente aeroterrestre.
Nella seconda missione - la difesa del fronte meridionale e delle linee di comunicazione marittime convergenti sulla Penisola -la predominanza della componente navale era ben evidente, mentre il contributo della Marina alla terza missione (difesa aerea) veniva individuato nella partecipazione ad uno schieramento integrato di scoperta lontana e di difesa antiaerea ed antimissile. La quarta missione (difesa del territorio) presupponeva la protezione delle aree sensibili e di interesse militare (infrastrutture industriali ed energetiche, centri decisionali, basi e installazioni della Difesa) su tutto il territorio; nella quinta missione si prefigurava il concorso ad operazioni di "peace keeping" (come già accaduto in Libano) e di protezione civile, mentre infine la sesta missione era rivolta al supporto logistico delle forze in campo. I compiti di esclusivo o prevalente impegno marittimo erano concentrati nella seconda missione, con una programmazione che prevedeva la suddivisione della linea operativa navale secondo i due gruppi d'altura e le componenti specialistiche precedentemente citate; il concorso aeronavale, per la prima volta dopo diversi anni, veniva considerato un elemento tanto importante da avviare un profondo riesame della questione dell'aviazione imbarcata. Veniva inoltre disposta la costituzione di una Forza d'Intervento Rapido (FIR), destinata ad operare nell'ambito di almeno quattro delle precedenti missioni, che avrebbe compreso fra l'altro la componente anfibia della Marina (composta dal Battaglione "San Marco" e dalle navi da trasporlo e sbarco).
Il bilancio della Difesa del 1985 assegnava alla Marina 2.783 miliardi, di cui un 30% devoluto alle spese di ammodernamento distribuite fra i programmi associati all'esaurimento della Legge Navale e gli stanziamenti ordinari. Per i primi l'unica novità era rappresentata dall'acquisizione di alcuni sottosistemi da installare sui futuri caccia lanciamissili, mentre col bilancio ordinario si puntava ad acquisire due ulteriori sommergibili classe Sauro (5' e 60 esemplare), un primo gruppo di quattro corvette classe Minerva, il terzo rifornitore di squadra, un'unità d'appoggio alle attività sperimentali della Commissione Permanente per gli Esperimenti dei Materiali da Guerra (MARIPERMAN) di La Spezia, oltre a naviglio minore e d'uso locale. A fronte di un crescente impegno si assisteva ancora una volta ad una preoccupante contrazione delle disponibilità che avrebbe Nel febbraio del 1985 iniziava nell'Unione Sovietica l'"era Gorbaciov", foriera di avvenimenti che avrebbero inciso profondamente sulla storia dell'intero pianeta; il Mediterraneo rimaneva però nel frattempo un'area di confronto fra le due Superpotenze, con un corollario di situazioni d'instabilità accentuate dalla diffusione dell'integralismo islamico e di una linea politica marcatamente antioccidentale ed antiamericana.
Nelle adiacenze dell'ex "mare nostrum", il Golfo Persico era inoltre diventato la frontiera marittima del sanguinoso conflitto che dal 1980 opponeva Iraq ed Iran. In questo scenario turbolento prendevano forma episodi di terrorismo internazionale, culminati nell'ottobre 1985 nel sequestro della turbonave Achille Lauro ad opera di un gruppo palestinese. L'immediata mobilitazione del dispositivo aeronavale nazionale (operazione "Margherita") servì a verificarne il grado di prontezza reattiva e la vicenda, pur concludendosi senza dover ricorrere a un'azione militare, servì a mettere in luce qualche lacuna soprattutto nella fase di localizzazione dell'obiettivo, evidenziando la necessità di una più efficace componente aerea per il pattugliamento marittimo a largo raggio. Lo stato di latente tensione, aggravato dall'episodio dell'Achille Lauro, sfociò l'anno seguente nel confronto fra Stati Uniti e Libia e nella successiva ritorsione operata dal governo di Tripoli con l'attacco missilistico contro la stazione LORAN gestita dagli Stati Uniti sull'isola di Lampedusa (15 aprile 1986). Anche in tale occasione la Marina divenne il fulcro di un dispositivo (operazione "Girasole") mirato soprattutto ad estendere quanto più possibile verso sud la sorveglianza antiaerea ed antimissile (obiettivo raggiunto col rischieramento nel Canale di Sicilia di naviglio d'altura con funzioni di picchetto radar), oltre che a manifestare apertamente la volontà nazionale di difesa contro aggressioni ingiustificate.
Il complesso aeronavale italiano si venne così a trovare in prima linea sulla frontiera marittima del fianco sud della NATO, in una situazione dove veniva messa in gioco la sicurezza del territorio nazionale. Il dibattito che ne seguì rese evidente all'opinione pubblica la scarsa efficacia delle rete di allarme radar e la mancanza di una qualsiasi forma di difesa contro attacchi missilistici, confermando le difficoltà in cui erano costrette ad operare le Forze Armate. Dopo circa otto anni di guerra "dimenticata", il Golfo Persico balzò alla ribalta dell'opinione pubblica mondiale nel 1984, quando Iran ed Iraq decisero di estendere le ostilità al traffico marittimo commerciale. Da quel momento si assistette ad una drammatica escalation del conflitto che finì con l'abbracciare praticamente tutto il bacino, dallo Shatt-el-Arab al Golfo di Oman, coinvolgendo anche navi appartenenti a nazioni neutrali. L'attacco contro la fregata americana Stark (maggio 1987) e la richiesta kuwaitiana agli USA per la protezione delle petroliere battenti la bandiera dell'Emirato portarono all'intervento dell'US Navy e della marina britannica, in risposta alle preoccupazioni dei rispettivi paesi per le conseguenze di un possibile blocco generale dei traffici petroliferi. L'invito rivolto successivamente dagli Stati Uniti ad altre nazioni per una presenza più sostanziale e diretta nel Golfo era ampia mente motivato dal fatto che i principali alleati europei ed asiatici degli USA (fra cui l'Italia) erano dopotutto i maggiori beneficiari del traffico petrolifero, circostanza che - assieme al loro rango sulla scena politico-economica internazionale - non poteva certamente giustificare una loro rinuncia all'assunzione di adeguate responsabilità in un'operazione di "polizia internazionale".
Mentre in Italia si accendeva sulla questione dell'invio di unità militari nel Golfo un dibattito politico particolarmente aspro, la Marina iniziava a prepararsi per una missione che prevedeva sostanzialmente operazioni di scorta al naviglio mercantile e di bonifica da mine navali, in un teatro operativo ben distante dalla madrepatria; per la prima volta la Forza Armata si trovava di fronte ad un'esigenza che avrebbe richiesto il rischieramento in zona di guerra di un consistente gruppo dì unità navali, oltre all'adozione di adeguate procedure tecnico-tattiche in un ambiente con caratteristiche assolutamente nuove per la Marina Militare. L'attacco dei "guardiani della rivoluzione" iraniani contro la motonave Jolly Rubino diede il via all'intervento della Marina che, iniziato il 15 settembre 1987 con la partenza del 18' Gruppo Navale dalle basi di Taranto e Augusta, si concluse entro la fine dell'anno successivo con il rientro in Patria delle ultime unità impegnate nelle operazioni di bonifica. Il 18' Gruppo Navale, al comando dell'ammiraglio Angelo Mariani, era costituito da una forza di protezione e supporto (fregate e unità logistiche) e da una forza contromisure mine (cacciamine), entrambe sotto stretto controllo operativo nazionale.
Da questa prima missione, dal risultato ampiamente positivo, fu possibile trarre alcune importanti conclusioni: ne risultava in primo luogo confermata la bontà delle scelte a suo tempo operate per l'ammodernamento della flotta, il cui nucleo principale era ormai composto da unità in grado di operare a lunga distanza dalle basi con un minimo supporto logistico. Un'ulteriore conferma riguardava la validità delle soluzioni adottate per la creazione di un'efficiente e moderna componente di contromisure mine, mentre era ormai evidente l'improrogabile necessità di un terzo rifornitore di squadra.
Vanno ricordati due altri importanti fattori: il primo riguarda il tipo di missione svolto dalle navi italiane, impegnate nella scorta diretta del naviglio mercantile (a differenza di altre Marine che adottarono il sistema di convogliamento del traffico) e quindi sottoposte ad un logorio superiore. Il secondo punto riguarda la mancanza di un coordinamento tattico fra i vari contingenti navali europei impegnati in zona, frutto di una mancata percezione, soprattutto in sede UEO, del più ampio significato politico i una missione tesa a salvaguardare i legittimi interessi delle nazioni.