L'evento che più di ogni altro avrebbe fatto sentire alla lunga il suo peso fu la presa del potere in Iran da parte della casta religiosa islamica di fede sciita, dopo il rovesciamento dello Scià e del regime di transizione che ne seguì la caduta. La conseguenza più immediata fu un rafforzamento del dispositivo militare statunitense nella fascia compresa fra il Mediterraneo orientale e il Golfo Persico, anche come supporto al fallito tentativo di liberazione degli ostaggi nell'ambasciata americana a Teheran (aprile 1980); mentre col passare degli anni la diffusione dell'integralismo islamico in molti paesi asiatici e del litorale nord-africano finì con l'introdurre un nuovo elemento di incertezza nella situazione politico-strategica generale. Occorre tuttavia riconoscere che almeno in una regione - quella del Sinai - gli sforzi della diplomazia, sfociati negli accordi di pace di Camp David, avevano garantito l'instaurazione di una fascia di relativa stabilità: il contributo (seppure susseguente e indiretto) dell'Italia e della sua Marina Militare si concretizzò nella partecipazione alla Forza Multinazionale e di Osservatori (MFO), con l'invio di un gruppo navale di pattugliamento a Sharm-el Sheik.

Un SH-3D in voloFu quella una delle prime missioni a vedere l'impiego di forze navali nazionali in operazioni al di fuori dell'area di competenza NATO, a premessa di una consuetudine che si sarebbe consolidata negli anni a venire. La turbolenza politica che da almeno un trentennio caratterizzava la regione medio orientale finì con l'aggravare il confronto militare in atto in Libano sin dal 1975, provocando nel 1982 l'intervento diretto delle forze israeliane, protagoniste dell'operazione "Pace in Galilea". Fu l'intervento dissuasivo della Forza Multinazionale di Pace ad impedire un ulteriore degrado della crisi, anche se la presenza dei diversi contingenti occidentali a Beirut non dimostrò di poter contribuire, alla lunga, a un'adeguata soluzione dei problemi dell'area. La partecipazione italiana fu questa volta più articolata, con la Marina impegnata dal settembre 1982 al marzo 1984 sia nelle operazioni di controllo e pattugliamento davanti alle coste libanesi, sia nella scorta al naviglio mercantile e militare impiegato per il trasporto dall'Italia a Beirut dei reparti dell'Esercito e del Battaglione "San Marco". Le missioni "Libano 1" e "Libano 2" diedero occasione di sperimentare in condizioni di massimo realismo alcune delle procedure tipiche delle operazioni congiunte con formazioni navali di altri paesi occidentali, palesando peraltro alcune difficoltà di ordine tecnico (come nel caso dell'incidente al Grado, rallentato da un'avaria alle macchine mentre era impegnato nel trasferimento di un reparto italiano a Beirut) che sottolinearono l'indifferibilità dell'ammodernamento della componente da trasporto anfibio.

La fregata missilistica Lupo realizzata assieme alle tre gemelle con i fondi dei bilanci ordinariUn ulteriore elemento di disturbo sopravvenne nell'agosto 1984, quando nella zona immediatamente a meridione del Canale di Suez alcune esplosioni subacquee provocarono l'interruzione della navigazione commerciale, come risultato di un’ operazione terroristica su vasta scala che riportò alla ribalta l'efficacia delle mine navali e l'urgenza di non sottovalutarne la minaccia. Toccò ancora una volta alla Marina partecipare alle operazioni di bonifica nel Mar Rosso, con l'invio di un gruppo navale formato da tre cacciamine e dalla nave appoggio Cavezzale. A questa situazione di conflittualità latente si associavano altri fattori destabilizzanti, sostanzialmente originati dalla volontà dell’URSS di consolidare le proprie posizioni nel Mediterraneo. Si assisteva infatti ad un potenziamento generale delle forze armate di Siria e Libia, nazioni a religione musulmana legate a Mosca da vari trattati di amicizia e cooperazione. Mentre però la Siria si collocava in un contesto geografico abbastanza "defilato" rispetto alle più dirette preoccupazioni italiane, l'atteggiamento sovietico nei confronti della Libia confermava l'ipotesi di una politica espansionistica verso il Mediterraneo centro-meridionale e la fascia settentrionale africana. Questa politica trovava riscontro anche nelle rivendicazioni del governo di Tripoli in merito allo sfruttamento delle risorse petrolifere sottomarine al largo dell'arcipelago maltese, per la cui tutela il governo di La Valletta finì per sottoscrivere un accordo di cooperazione con l'Italia.

Si profilava così quella che qualche anno più tardi, grazie anche al rafforzamento della squadra sovietica del Mediterraneo, sarebbe stata definita la "minaccia da sud", che avrebbe contribuito a spostare verso meridione le attenzioni della NATO. Diventava a questo punto necessaria per l'Italia una ridefinizione della propria politica militare, accompagnata da una ridistribuzione del potenziale militare nazionale (soprattutto aeronavale) a controllo e protezione di tutto il sistema insulare del Mediterraneo centrale comprendente, oltre alla Sicilia e alle isole minori, il Canale di Sicilia e le acque adiacenti. In una relazione dell'allora Capo di Stato Maggiore ammiraglio Vittorio Marulli, vennero evidenziate nel 1984 la quantità e la composizione delle forze necessarie alla Marina per fronteggiare eventuali crisi mediterranee; capacità che non poteva oltretutto prescindere da un adeguato supporto aerotattico, possibile solamente attraverso lo spostamento di alcuni reparti dell'Aeronautica sulle basi siciliane e l'assegnazione al settore di almeno una coppia di velivoli AWACS della NATO Airborne Early Warning Force. Il complesso navale minimo individuato dal documento si articolava su quattro componenti fondamentali (d'altura, costiera, subacquea e di contromisure mine), supportate da un'adeguata forza anfibia e da una componente minore di unità logistiche, parimenti essenziali per assicurare l'efficienza dell'intero dispositivo. Le forze d'altura erano a loro volta ripartite in due gruppi d'impiego, ognuno costituito da un'unità portaeromobili, 2-3 caccia lanciamissili, 6-7 fregate e un rifornitore di squadra, mentre le forze costiere avrebbero dovuto essere composte da 18 corvette e 18 pattugliatori Dall'esame della composizione delle forze navali italiane a metà degli anni '80 si desume l'insufficienza quantitativa delle piattaforme, pure in un periodo in cui le nuove costruzioni previste dalla Legge Navale e dai bilanci ordinari erano ormai quasi tutte entrate in servizio. In particolare la componente d'altura rivelava la mancanza sia di una seconda unità del tipo Garibaldi sia di almeno due nuovi cacciatorpediniere lanciamissili, in considerazione dei limiti d'età dei tipi Impavido, la cui sostituzione risultava tuttora affidata alle due unità del programma Animoso.

L'aliscafo Sparviero in navigazione accanto all'incrociatore Vittorio VenetoUna situazione apparentemente migliore era quella del nucleo fregate, un tipo di unità che si sarebbe di lì a qualche anno rivelato essenziale, con le 12 unità classe Lupo e Maestrale e i due Alpíno in servizio, si poneva allora molta speranza nel programma NATO per la fregata anni '90 (NFR 90), che sarebbe tuttavia clamorosamente fallito. Circa le componenti logistica ed anfibia, da registrare la necessità di un terzo rifornitore di squadra (a lungo rinviato) e l'urgenza del già avviato programma costruttivo per le unità da trasporto anfibio classe San Giorgio. Del naviglio previsto dalla Legge Navale del 1975, dieci anni più tardi erano entrati in servizio il Garibaldi, due sommergibili classe Sauro, le otto fregate classe Maestrale, i 6 aliscafi classe Nibbio, i primi 4 esemplari di cacciamine classe Lerici, il secondo rifornitore di squadra (Vesuvio) e la nave salvataggio Anteo, mentre non era ancora iniziata la costruzione dei due caccia lanciamissili e del secondo gruppo di 6 cacciamine. Nonostante l’intero programma della Legge Navale non fosse ancora concluso, il processo di ristrutturazione della Marina Militare era ormai in sintonia con i più recenti sviluppi tecnologici del settore, secondo un processo che non poteva peraltro né arrestarsi né considerarsi ultimato, se non a scapito dell'efficienza globale e della credibilità per l'intero complesso di forze e, più in generale, per la politica di difesa della Nazione.