Essere medico di bordo è un ruolo che va oltre la medicina, che si intreccia con la vita di mare, con l'adattamento, con l'ascolto e, a volte, con il silenzio.
Non si è soltanto dall'altra parte della scrivania in ambulatorio, ma si vive con i propri pazienti, si mangia con loro, si dorme insieme, si condividono le fatiche, le gioie e le giornate nei porti. Si diventa parte di una piccola comunità galleggiante dove ognuno ha un volto, un nome, una storia.
Divento la pacca sulla spalla, la parola detta al momento giusto, il "fastidioso" promemoria vivente che la salute viene prima di tutto, anche in mare, l'ascoltatore silenzioso di cui si ha spesso bisogno.
Ogni giorno, si possono alternare molte attività: visite mediche, confronti, medicazioni, momenti di ascolto, addestramento e a volte anche emergenze. Si passa dalla prevenzione al primo soccorso, dal dolore fisico a quello che non si vede.
Tutto ciò è ancora più possibile grazie alla collaborazione stretta che ho con l'infermiere di bordo. Una squadra piccola, ma insostituibile, costruita sull'urgenza, sull'intesa e sulla fiducia. Nelle emergenze, non c'è tempo per spiegarsi: ci si capisce con uno sguardo. In quei momenti, siamo stati davvero un team, coesi e pronti ad agire, contando l'una sull'altro.
A volte, però, il ruolo del medico di bordo si estende anche oltre la Nave. In alcuni porti, si ha l'opportunità di fare la differenza, vivendo esperienze che lasciano il segno. Una delle esperienze che più mi ha segnata è quella vissuta a Gibuti, in Africa, con la fregata Federico Martinengo.
In questo porto, ho portato avanti attività di assistenza medica rivolte alla popolazione locale, in particolare ai bambini di strada e alle famiglie più vulnerabili. Quest'esperienza mi ha arricchito sia professionalmente, permettendomi di confrontarmi con tante patologie che non sempre si riscontrano a bordo, sia umanamente.
Ogni volta che ormeggiamo, dedico tempo, energie e cuore a questa realtà, che mi ha obbligata a guardare altrove e a scardinare alcune delle mie prospettive.
Lì, ogni gesto pesa di più. Un sorriso non è semplice cortesia, e tu non puoi far altro che fermarti, ascoltare, e portarti dietro quello che hai visto.
Alcuni volti mi resteranno impressi nella memoria, più di altri. Uno è quello di Momo — due anni, occhi svegli, risate facili. Gioca sempre con il fonendoscopio e gli piace quando me ne prendo cura, anche solo con semplici medicazioni. A volte è stato davvero male, altre volte ha avuto solo piccole ferite che gli faceva piacere venissero disinfettate. All'inizio si teneva a distanza, come tanti altri bambini. Ma poi ha capito e ora mi aspetta, anche solo per un palloncino fatto con un guanto, con cui giocare.
Con i bambini è diverso. Non basta saperli curare, bisogna prima farsi spazio nel loro mondo, conquistare la fiducia dei grandi che li accompagnano, poi trovare un modo per entrare in punta di piedi.
A volte una carezza vale più di un farmaco. A volte è il gioco che cura.
Poi ci sono gli incontri che ti sorprendono, come la Signora Clotilde. Quando sono arrivata la prima volta, mi ha guardata con un'aria che lasciava poco spazio. Presenza decisa, abituata a tenere il controllo della stanza in cui visito. Di fatti lì dentro è lei il punto di riferimento: gestisce tutti i farmaci e li custodisce con ordine, anche se aspetta il mio parere prima di usarli. Conosce ogni bambino, sa chi ha più bisogno, chi è fragile, chi finge di stare bene. Ora, ogni volta che arrivo, mi aspetta. Mi stringe forte per salutarmi. Mi affianca nelle medicazioni più difficili, con mani sicure e occhi attenti e le affido le terapie che devono seguire i bambini quando la mia nave riparte e non ci sono.
Ogni esperienza, ogni incontro — da Momo alla Signora Clotilde e alle urgenze a bordo — mi avvicinano sempre più alla comprensione di cosa significhi davvero essere medico in un contesto come questo.
Si tratta di agire rapidamente quando necessario, essere pronti, saper ascoltare nei momenti di silenzio, gestire le emergenze e, allo stesso tempo, le relazioni quotidiane con chi dipende dalla nostra cura, in sintonia con il Comandante, in un equilibrio che ci permette di agire con chiarezza.
E, soprattutto, di portarsi dietro ogni volta qualcosa di nuovo, qualcosa che ti cambia, che arricchisce, che ti fa sentire, alla fine di tutto, che ciò che fai conta.