«La pirocorvetta Magenta, partita dalla rada di Valparaiso il 30 ottobre 1867, trovavasi il 10 novembre in latitudine 46° 46' S. e longitudine 76° 59' 45'' O. Greenwich forzando di vele per trovarsi prima di notte nelle acque del Capo Tresmontes…». Con queste parole, tratte dal rapporto di missione di quell'unità, inizia, sul numero 1 della Rivista Marittima, aprile 1868, il resoconto della prima circumnavigazione del globo da parte di una nave da guerra della Marina italiana: la Regia Pirocorvetta a elica di I ordine Magenta. Nave Magenta, al comando del Capitano di fregata Vittorio Arminjon, era appena rientrata a Napoli, il 28 marzo 1868, dopo 785 giorni di missione. La circumnavigazione del globo era iniziata partendo da Montevideo, dove l'unità era stazionaria, il 2 febbraio 1866, procedendo rotta Est per passare il Capo di Buona Speranza ed entrare nell'Oceano Indiano. Da lì in Cina, Giappone, Australia, Sud America e il rientro in Atlantico. Infine lo Stretto di Gibilterra e, appunto, Napoli. Scopo della missione: avviare relazioni diplomatiche e commerciali con i grandi imperi dell'Estremo Oriente. In pratica si trattava di presentare il tricolore del neonato Regno d'Italia (ancora non riconosciuto, per esempio, dall'Austria e da dozzine di altri Stati), sui mari del mondo. Inoltre, sarebbero state compiute importanti rilevazioni scientifiche e naturalistiche di un mondo ancora, in larga parte, ignoto nonostante il viaggio di Darwin sul Beagle di trent'anni prima. Non è quindi un caso che da allora il giovane Stato unitario italiano inviasse, fino al 1911, ben 21 navi militari in missione di circumnavigazione del globo. In pratica, una Regia Nave fu sempre in moto intorno alla Terra, senza distinzioni tra i governi delle cosiddette Destra e Sinistra storica. Queste attività, ormai plurisecolari, sono, a tutt'oggi, un preciso compito politico-militare svolto con continuità ed efficacia. Una modalità d'impiego delle unità militari che possiamo definire: «L'arte di avvicinare i popoli tramite il mare» e che richiedono, come è logico, un'accurata preparazione diplomatica, nautica e, non dimentichiamolo, culturale.
In altre parole stiamo parlando dell'esercizio del Potere Marittimo in funzione delle Relazioni Internazionali mediante la cosiddetta «Diplomazia Navale»: una delle tante, e non certo l'ultima, delle forme di manifestazione dell'uso del mare per i legittimi interessi di ogni Stato. La Diplomazia Navale è, in buona sostanza, una delle modalità mediante la quale uno Stato esercita l'arte, antichissima, della Diplomazia. La moderna prassi diplomatica (intesa, a sua volta, come un'attività codificata secondo norme condivise da molti — diciamo pressoché da tutti — mediante l'impiego di missioni all'estero) nasce proprio in Italia tra il XV e il XVI secolo. Le Repubbliche Marinare di Genova e Venezia basate, come tutto l'insieme degli Stati di lingua italiana, sul commercio e sugli scambi culturali con l'estero, fecero buona scuola. Il Dizionario Treccani definisce la diplomazia: «L'arte di trattare, per conto dello Stato, affari di politica internazionale». Nel caso specifico della Diplomazia Navale è, tuttavia, opportuno fare alcuni distinguo per poter comprendere appieno questa manifestazione del Potere Marittimo. La strategia navale cosiddetta «classica» individua, all'interno dell'esercizio del Potere Marittimo, il ruolo diplomatico esercitato dalle navi da guerra attraverso due precise attività: il «Mostrar Bandiera» e la «Deterrenza convenzionale». Come noto, la dimensione navale si manifesta, soprattutto, ma non solo, in tempo di pace, mediante le varie declinazioni del Potere Marittimo. Le navi della Marina Militare solcano, da sempre, i mari e gli oceani di tutto il mondo. Si tratti di missioni destinate ad assicurare compiti di presenza e sorveglianza o di concreto sostegno e sviluppo delle relazioni internazionali. Le ricadute sono, come il mare, a giro d'orizzonte: politiche, militari, diplomatiche, sociali, finanziarie, commerciali e culturali. Tutto ciò caratterizza la natura stessa delle navi da guerra e la loro ragion d'essere in qualità di insostituibili strumenti della diplomazia nazionale e, quindi, della politica estera dello Stato. Sotto tali condizioni, «Mostrar Bandiera» costituisce una precisa attività a supporto del «Sistema Paese» ed è fondamentale nella promozione di prodotti nazionali ad alta tecnologia (non esistono, né devono esistere, navi da guerra antiquate), a sostegno delle imprese italiane sui mai facili mercati esteri. In effetti l'Italia richiede, come tutti, un continuo sviluppo economico e, come molti, l'accesso alle indispensabili fonti energetiche. Oltre che — di nuovo come qualunque Nazione — la protezione e la difesa dei propri interessi vitali. Lo scopo è quello di una comune crescita sostenibile e di generale prosperità attraverso l'essenziale proiezione della dimensione marittima sulle acque che coprono tre quarti del globo. «Mostrar Bandiera» in sostanza rappresenta la proiezione economica, sociale e culturale dello Stato di appartenenza dell'unità navale. Ed è così vero al punto che il Diritto Internazionale Marittimo riconosce alle navi da guerra il «privilegio», ovunque siano nel mondo, di essere parte integrante del territorio nazionale. Ecco, quindi, che le unità della Marina Militare rappresentano la più avanzata espressione delle capacità tecnologiche, industriali ed economiche della nazione tutta, la quale ha fatto sì che il loro progetto e la loro costruzione e manutenzione siano, al pari dell'equipaggio che le arma, lo specchio fedele di una precisa, individuale e non omogeneizzabile cultura e civiltà. «Mostrar Bandiera», pertanto, non è un atto banale o, come si dice oggi, dovuto. È una libera e importante manifestazione di una precisa volontà politica e strategica. «Mostrar Bandiera» significa voler intessere rapporti di amicizia, fruttuose relazioni commerciali e proficui scambi culturali. Nel quadro della promozione del Made in Italy, la Marina Militare ha storicamente, e tradizionalmente, fornito sempre il proprio contributo, procedendo di conserva con la rete diplomatico-consolare e con quella parallela degli imprenditori nazionali, affiancando, tra l'altro, le numerose e — grazie anche a questo — prospere, nel tempo, comunità italiane all'estero.
Come abbiamo visto gli esempi di quest'attività non sono mancati fin da prima della stessa proclamazione dello Stato unitario e oggi celebriamo con orgoglio e legittima soddisfazione la conclusione di un grande giro del mondo da parte di nave Vespucci, la più anziana unità della Marina Militare (94 anni compiuti il 22 febbraio 2025 e l'ultima che abbia partecipato alla Seconda guerra mondiale). Nave Vespucci non solo soddisfa l'esigenza addestrativa e formativa dei futuri Ufficiali e Sottufficiali della Marina alla vita di bordo e al piede marino sotto i più diversi cieli. Assolve, infatti, anche la missione primaria di portare e raccontare, attraverso i mari, i valori della cultura, il significato della bellezza e la storia del popolo italiano. Nave Vespucci è stata anche nominata ambasciatore sul mare dell'UNESCO e dell'UNICEF nel corso di questo giro del mondo. Ciò ha permesso di costruire e consolidare inimmaginabili forme di dialogo, amicizia e cooperazione a tutti livelli. Una testimonianza in questo senso è quella che emerge dalle pagine che seguono. Si tratta di scritti dovuti alla mano di alcuni comandanti di quella Nave. Per quanto attiene, invece, all'aspetto della «Deterrenza convenzionale» riferita alla Diplomazia Navale si tratta di una missione che riguarda, ovviamente, le combatant ships. Come noto, la Marina Militare rappresenta, sul mare, il principale baluardo in termini di difesa e di deterrenza rispetto alle potenziali minacce, presenti o future, che la nostra Nazione si troverà, sempre e inevitabilmente, ad affrontare. Il principale compito della Marina Militare è quello di assicurare, senza preavviso, la Difesa dello Stato in ogni momento e per tutto il tempo necessario, tutelando sul mare e dal mare gli interessi nazionali e il benessere dei propri cittadini. Tutto ciò premesso, la Diplomazia Navale significa una Marina Militare che sia non solo pronta ed efficiente davanti a un'ipotesi di conflitto, ma operi in maniera visibile, agendo quotidianamente proprio allo scopo di prevenire le crisi e le guerre. Le unità navali sono, in vista di quest'obiettivo, ottimi strumenti, tanto dissuasivi quanto, allo stesso tempo, diplomatici. Quando uno Stato interviene con una propria nave da guerra in un'area d'interesse nazionale, o laddove possano essere minacciati interessi vitali nostri o alleati, essa trasmette un preciso messaggio a tutte le parti in causa in merito alla volontà del proprio governo. Questo impiego delle unità da guerra non è da confondere con la sterile minaccia dell'uso della forza, come era la regola ai tempi della cosiddetta Gunboat Diplomacy (Diplomazia delle cannoniere) (1) dei secoli passati, ma l'esercizio, puro e semplice, della «deterrenza convenzionale». Un compito, cioè, esercitato in perfetto connubio con il «Mostrar Bandiera», confermando quali sono le quantità in gioco a beneficio di qualsiasi strategia navale che voglia essere davvero efficace. Per concludere, molti navalisti, a cominciare dallo statunitense Alfred T. Mahan e dal suo «rivale» britannico Julian Corbett, hanno indirizzato prevalentemente i propri studi in capo al Potere Marittimo in guerra. Si è trattato di una scelta editorialmente efficace, ma che non riconosce l'attenzione che merita, al contrario, il ruolo assicurato delle Marine in tempo di pace, ovvero durante la maggior parte degli anni e dei secoli. È passato, pertanto, inosservato — o quasi — l'utilizzo delle navi da guerra come strumento diplomatico a sostegno e al servizio della Politica estera. Si tratta, a tutti gli effetti, di una «dimenticanza» clamorosa. In effetti, il Potere Marittimo vive di relazioni internazionali. Qualora uno Stato volesse aumentare il proprio Potere Navale (navi, basi, addestramento e, diciamolo pure, munizionamento, pezzi di rispetto e di consumo e combustibile) senza però realizzare, contemporaneamente, adeguate relazioni diplomatiche con altri Stati, esso diventerebbe, inevitabilmente, assai meno influente ed efficace. Se si costruiscono navi e non si tessono relazioni diplomatiche non si esercita il Potere Marittimo, in quanto questo fenomeno vive di relazioni, commercio e cultura. Non poteva scriverlo meglio, su queste stesse pagine, già nel settembre 1868, un mio illustre predecessore, il Capitano di fregata Carlo De Amezaga, primo Direttore della Rivista Marittima dal 1868 al 1870. Per questo abbiamo voluto riportare integralmente, nelle pagine che seguono, il suo pezzo di allora. I secoli (secoli!) sono passati, ma quelle parole di buon senso non hanno perso una riga della propria freschezza ed attualità. Ed è per questo che abbiamo intitolato questo numero speciale: «I contemporanei», ovvero dando la parola ai passati comandanti del Vespucci. Per concludere, l'importanza di una Marina non è legata al solo tempo della guerra ma, se possibile, emerge in misura ancora maggiore durante la pace. Quando il Potere Marittimo non solo assicura e protegge il commercio, l'industria, le finanze, il risparmio e gli interessi nazionali e dei singoli cittadini ma, attraverso, la Diplomazia Navale, assicura cordiali e indispensabili relazioni attraverso i mari con gli altri Stati. La Marina si conferma, così, grazie all'instaurare e alla «manutenzione» delle relazioni internazionali, un volano decisivo dell'Economia e uno strumento di scambio culturale a sostegno dei rapporti di amicizia con altri popoli. In definitiva: senza una vera cultura e tradizione navale non esiste un Paese marittimo. E questa cultura e queste tradizioni sono state affidate, intorno al mondo, alle vele e ai gabbieri di nave Vespucci, severa scuola di uomini e, oggi, di donne, alla vita sul mare, ben sapendo che: «Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt» (Chi va oltre mare muta cielo, non animo, Orazio, Epistole, 1,11, 27, opera pubblicata nel 20 Avanti Cristo, 2045 anni fa).
NOTE
(1) La Diplomazia delle cannoniere: Sono passati oltre cinquant'anni dalla pubblicazione, nel 1971, del classico volume dell'inglese James Cable: Gunboat diplomacy. Per quel diplomatico e studioso di strategia britannico, la Gunboat diplomacy era: «L'uso o la minaccia dell'uso di una limitata forza navale — che non costituisce un atto di guerra —, al fine di assicurarsi un vantaggio o prevenire una perdita, sia nel promuovere la risoluzione di una controversia internazionale, sia contro nazioni straniere all'interno del territorio di giurisdizione del loro Stato». Una strategia, quella della diplomazia delle cannoniere, basata sulla minaccia — o sull'impiego — della forza, sia pure in misura relativamente limitata, allo scopo di «sbloccare» eventuali crisi. Un sistema reso possibile, nel XIX secolo, soltanto da un'oggettiva, e oggi irripetibile, sproporzione di potenza tra le parti e che il XX secolo ha reso, ben presto, obsoleto, proprio perché il divario tra un'unità da guerra armata con cannoni e l'impotenza di chi si trovava dall'altra parte della volata del pezzo, non è stato più tale.